L'INCONTRO, COMUNQUE
"È la storia umana che fa passare il reale allo stato di parola"
Roland Barthes, Miti d'Oggi
Roland Barthes, Miti d'Oggi
Si tratta di tracciare il
profilo di un incontro. Impossibile delegare tutto al caso, riduttivo
iscrivere tutto ad affinità: gli incontri avvengono sulla scia di un
inseguimento individuale; le contingenze dell'esser-ci, dell'io nel
mondo, portano in seguito sia all'altro che al collettivo. È in
questa prospettiva che si indaga il corpus produttivo di Cristina
Fiore e Andrea Penzo, dal 2009 alias Cantiere
Corpo Luogo. In quell’anno l'identità artistica è divenuta
univoca e l'individualità parallela dei due artisti è stata deviata
su un unico binario. Accade, come accade l'amore, per predisposizione
d'animo più che per ricerca ossessiva. Si abbandonano libertà, e se
ne guadagnano altre, distribuite in una forza che prende vita dalla
capacità visionaria di creare nuovi mondi, di riscrivere quello che
è stato e di immaginare il presente come un foglio da compilare con
un nuovo codice, rimasto intentato fino al momento dell'unione.
Da qui in poi si procede per tentativi, ci si lascia guidare dall'istinto e dalla volontà di barattare quello che una volta era doppio in una singolarità, ad un prezzo che non si conosce mai fino in fondo.
Non si tratta di fare tabula rasa, ma quantomeno di ricreare, mettendo al mondo un nuovo modo di operare. Cristina Fiore e Andrea Penzo non si sono sottratti alla questione, ma hanno fatto quello che Vincenzo Agnetti, padre dell'arte Concettuale italiana, aveva dichiarato attraverso una sua celebre opera, “dimenticando a memoria”.
Partendo dal proprio passato, i due artisti hanno operato una selezione, hanno unito i lembi coincidenti, creando un unico puzzle a partire da due diverse composizioni. Penzo + Fiore hanno iniziato ad indagare quelli che sono stati i loro “appuntamenti” con gli incontri del sociale, della storia contemporanea, delle (im)possibilità del presente e delle sue azioni, in un aspetto che rifugge le estetiche caratterizzanti molta dell'arte degli ultimi anni, che si è voluta leggera, ironica, evanescente. I due artisti piuttosto hanno definito le proprie tensioni cercando di arrivare dritto al punto di questioni comportamentali, aprendo falle nei disegni della società di massa, eludendo la sorveglianza dell'apparenza dei codici addomesticati; il nome con cui il duo firma i progetti “curatoriali”, d'altronde, racconta già, in maniera sottile, la poetica della propria operazione: un'officina aperta proprio su quell'esser-ci heideggeriano, un ente nel mondo, da non confondere con la soggettività.
E la parte di mondo che scelgono di indagare è composta da conflitti, dalla natura umana e dalle sue debolezze; una mise-en-scéne attraverso una presa visione della società, senza scusanti.
Non a caso le serie che compongono il corpus di lavoro della coppia hanno titoli che rappresentano in pieno la volontà di mantenere l'approccio di una visione critica, non didascalica, né descrittiva, ma piuttosto composta da particolari, talvolta anche effimeri, messi nero su bianco da azioni, fotografie, disegni, supporti “alieni”, accumulazioni: Sick Society, Infanticide, Egotism, Psycogenesis sono alcuni dei macro-progetti a cui sono legati lavori più specifici, realizzati dal 2009 o accorpati, rivisti interamente dopo l'unione.
Con Sick Society e l'azione documentata con la serie di fotografie Self Possession, del 2010, l'accento si pone in maniera inequivocabile sui disturbi di una socialità e della rappresentazione del sé in momenti rituali collettivi ben definiti, in questo caso proprio l'opening di una mostra. Un racconto che è delegato non tanto a una tipologia umana quanto all'atteggiamento che si impone come dimostrazione del sé, il desiderio di proiettare la propria luce ottenendo, al contrario, la messa in risalto del lato oscuro di un meccanismo sottile di omologazione metaforizzato in questo caso dall’azione di una normale coppia che si aggira durante un'inaugurazione, dove la donna indossa un paio di scarpe con un tacco vertiginoso ed un appoggio troppo piccolo per la pianta del piede, tanto da non riuscire a camminare e da dover usare delle stampelle per farlo. Un comportamento alterato per dimostrare superiorità o integrazione: tornano alla mente i celebri “capelloni” descritti da Pasolini, entità che dichiaravano la loro essenza “divina” proprio attraverso l'uso dei loro capelli, codice distintivo di una neonata modernità. Appoggiarsi all'altro, non solo alle stampelle ma anche al compagno non è che tracciare, anche in questa occasione, l'aderenza a un modello precostituito: una visione che, ancora Pasolini, aveva avuto in Petrolio, dove descriveva senza scusanti la forma di un nuovo capitalismo, a svantaggio delle classi più povere, attraverso il compiacimento muto de “Il Merda” e Cinzia sulla via di Tor Pignattara: una coppia che tutti dovevano vedere “allacciata in quel modo”, e che alla fine della camminata risulta sfatta e definitivamente coinvolta in via definitiva nel gioco al massacro dello spettacolo nascente.
Spostando il tiro sulla produzione di Infanticide si incappa invece in quelle che sono le origini del linguaggio, della scolarizzazione e dunque di una sorta di assoggettamento definitivo ai canoni precostituiti dell'esistenza, liberata da qualsiasi geografia, razza o religione. In Imprinting è il mondo dell'infanzia e della sua formazione a venire scardinato, con un'azione semplicissima: usando la mano sinistra per scrivere ricreando così il processo di apprendimento, l'artista compila una serie di diciotto quaderni. Via via i passaggi di calligrafia migliorano e i brani riportati evidenziano la necessità del bambino di attuare intorno a sé un riconoscimento, nonostante la costrizione del contesto, fisicizzato da un piccolo banco con una seduta non rimovibile; una gabbia di conoscenza destinata però a restare perennemente incompleta, determinante comportamenti futuri e possibilità di esistenza. Nelle azioni e nei frammenti messi in scena da Penzo + Fiore è forte, in tutti i casi, la volontà di mostrare l'alterità, quell'ombra che accompagna il nostro percorso e che dimostra che da vicino nessuno è normale, ma affannato di nevrosi, ossessioni e ultime sigarette eternamente da spegnere. Solve et Coagula, grande installazione iscritta nel registro della produzione della serie Psychogenesis, comprende un'azione in cui viene versato continuamente un bicchiere d'acqua attraverso un percorso snodato su circa 250 passaggi in altrettanti bicchieri, fino al naturale esaurirsi del liquido. Una modalità che sonda non solo una dimensione ossessiva, ma anche un tempo d'azione mai definibile precisamente, una fisicità che si allontana dalla norma e un'applicazione di un dogma che ha, nei suoi riferimenti, gli incontri della prima Body Art con la materia, con gli aspetti di una psiche chiamata a fare i conti con il desiderio innato di mettere ordine nel caos della vita, degli affetti, della socialità.
Un processo ossessivo determinato dalla volontà di essere riconosciuti, amati e benvoluti attraverso i codici imposti di una società che ci ha addomesticato all'idea del successo, al bisogno di apparire per esistere, per suffragare la tensione verso un esser-ci impoverito, che dell'originale concetto mantiene le tracce edulcorate e transitorie.
Conseguente a queste dinamiche è Frames, lavoro attualmente in progress appartenente alla serie Egotism, in cui si delinea la volontà, frustrata, di appartenere al flusso mediatico. Artisti o meno, tutti alla ricerca dei propri quindici minuti di celebrità per apparire all'interno di un mondo degno di nota. Una serie di numerose pagine di rivista sovrastampate con le fotografie delle performance di Penzo + Fiore svela, come scrive il duo «il narcisismo estremo di una condizione paradossale, quella dell'artista impotente di fronte ai grandi flussi della comunicazione, ma sempre proteso verso di essi». Ed è da questo punto che il cerchio si chiude, tornando idealmente alla Sick Society, ma arricchiti di un punto di vista in più. Non potrebbe esserci conclusione piú appropriata che il racconto di un'introduzione, che ruberemo in questo caso a John Berger e al suo Presentarsi all'appuntamento, per identificare il valore irriducibile di un incontro, e della genesi di una nuova prospettiva di mondo: si va nei posti, si vivono gli anni, ci si presenta ad appuntamenti che si svolgono in luoghi rintracciabili, altri che non hanno corpo fisico: «Tutti, naturalmente, sono stati visitati anche da altri viaggiatori. Spero che anche i lettori si ritrovino a dire: qui ci sono stato». In un luogo, e anche nel corpo.
Da qui in poi si procede per tentativi, ci si lascia guidare dall'istinto e dalla volontà di barattare quello che una volta era doppio in una singolarità, ad un prezzo che non si conosce mai fino in fondo.
Non si tratta di fare tabula rasa, ma quantomeno di ricreare, mettendo al mondo un nuovo modo di operare. Cristina Fiore e Andrea Penzo non si sono sottratti alla questione, ma hanno fatto quello che Vincenzo Agnetti, padre dell'arte Concettuale italiana, aveva dichiarato attraverso una sua celebre opera, “dimenticando a memoria”.
Partendo dal proprio passato, i due artisti hanno operato una selezione, hanno unito i lembi coincidenti, creando un unico puzzle a partire da due diverse composizioni. Penzo + Fiore hanno iniziato ad indagare quelli che sono stati i loro “appuntamenti” con gli incontri del sociale, della storia contemporanea, delle (im)possibilità del presente e delle sue azioni, in un aspetto che rifugge le estetiche caratterizzanti molta dell'arte degli ultimi anni, che si è voluta leggera, ironica, evanescente. I due artisti piuttosto hanno definito le proprie tensioni cercando di arrivare dritto al punto di questioni comportamentali, aprendo falle nei disegni della società di massa, eludendo la sorveglianza dell'apparenza dei codici addomesticati; il nome con cui il duo firma i progetti “curatoriali”, d'altronde, racconta già, in maniera sottile, la poetica della propria operazione: un'officina aperta proprio su quell'esser-ci heideggeriano, un ente nel mondo, da non confondere con la soggettività.
E la parte di mondo che scelgono di indagare è composta da conflitti, dalla natura umana e dalle sue debolezze; una mise-en-scéne attraverso una presa visione della società, senza scusanti.
Non a caso le serie che compongono il corpus di lavoro della coppia hanno titoli che rappresentano in pieno la volontà di mantenere l'approccio di una visione critica, non didascalica, né descrittiva, ma piuttosto composta da particolari, talvolta anche effimeri, messi nero su bianco da azioni, fotografie, disegni, supporti “alieni”, accumulazioni: Sick Society, Infanticide, Egotism, Psycogenesis sono alcuni dei macro-progetti a cui sono legati lavori più specifici, realizzati dal 2009 o accorpati, rivisti interamente dopo l'unione.
Con Sick Society e l'azione documentata con la serie di fotografie Self Possession, del 2010, l'accento si pone in maniera inequivocabile sui disturbi di una socialità e della rappresentazione del sé in momenti rituali collettivi ben definiti, in questo caso proprio l'opening di una mostra. Un racconto che è delegato non tanto a una tipologia umana quanto all'atteggiamento che si impone come dimostrazione del sé, il desiderio di proiettare la propria luce ottenendo, al contrario, la messa in risalto del lato oscuro di un meccanismo sottile di omologazione metaforizzato in questo caso dall’azione di una normale coppia che si aggira durante un'inaugurazione, dove la donna indossa un paio di scarpe con un tacco vertiginoso ed un appoggio troppo piccolo per la pianta del piede, tanto da non riuscire a camminare e da dover usare delle stampelle per farlo. Un comportamento alterato per dimostrare superiorità o integrazione: tornano alla mente i celebri “capelloni” descritti da Pasolini, entità che dichiaravano la loro essenza “divina” proprio attraverso l'uso dei loro capelli, codice distintivo di una neonata modernità. Appoggiarsi all'altro, non solo alle stampelle ma anche al compagno non è che tracciare, anche in questa occasione, l'aderenza a un modello precostituito: una visione che, ancora Pasolini, aveva avuto in Petrolio, dove descriveva senza scusanti la forma di un nuovo capitalismo, a svantaggio delle classi più povere, attraverso il compiacimento muto de “Il Merda” e Cinzia sulla via di Tor Pignattara: una coppia che tutti dovevano vedere “allacciata in quel modo”, e che alla fine della camminata risulta sfatta e definitivamente coinvolta in via definitiva nel gioco al massacro dello spettacolo nascente.
Spostando il tiro sulla produzione di Infanticide si incappa invece in quelle che sono le origini del linguaggio, della scolarizzazione e dunque di una sorta di assoggettamento definitivo ai canoni precostituiti dell'esistenza, liberata da qualsiasi geografia, razza o religione. In Imprinting è il mondo dell'infanzia e della sua formazione a venire scardinato, con un'azione semplicissima: usando la mano sinistra per scrivere ricreando così il processo di apprendimento, l'artista compila una serie di diciotto quaderni. Via via i passaggi di calligrafia migliorano e i brani riportati evidenziano la necessità del bambino di attuare intorno a sé un riconoscimento, nonostante la costrizione del contesto, fisicizzato da un piccolo banco con una seduta non rimovibile; una gabbia di conoscenza destinata però a restare perennemente incompleta, determinante comportamenti futuri e possibilità di esistenza. Nelle azioni e nei frammenti messi in scena da Penzo + Fiore è forte, in tutti i casi, la volontà di mostrare l'alterità, quell'ombra che accompagna il nostro percorso e che dimostra che da vicino nessuno è normale, ma affannato di nevrosi, ossessioni e ultime sigarette eternamente da spegnere. Solve et Coagula, grande installazione iscritta nel registro della produzione della serie Psychogenesis, comprende un'azione in cui viene versato continuamente un bicchiere d'acqua attraverso un percorso snodato su circa 250 passaggi in altrettanti bicchieri, fino al naturale esaurirsi del liquido. Una modalità che sonda non solo una dimensione ossessiva, ma anche un tempo d'azione mai definibile precisamente, una fisicità che si allontana dalla norma e un'applicazione di un dogma che ha, nei suoi riferimenti, gli incontri della prima Body Art con la materia, con gli aspetti di una psiche chiamata a fare i conti con il desiderio innato di mettere ordine nel caos della vita, degli affetti, della socialità.
Un processo ossessivo determinato dalla volontà di essere riconosciuti, amati e benvoluti attraverso i codici imposti di una società che ci ha addomesticato all'idea del successo, al bisogno di apparire per esistere, per suffragare la tensione verso un esser-ci impoverito, che dell'originale concetto mantiene le tracce edulcorate e transitorie.
Conseguente a queste dinamiche è Frames, lavoro attualmente in progress appartenente alla serie Egotism, in cui si delinea la volontà, frustrata, di appartenere al flusso mediatico. Artisti o meno, tutti alla ricerca dei propri quindici minuti di celebrità per apparire all'interno di un mondo degno di nota. Una serie di numerose pagine di rivista sovrastampate con le fotografie delle performance di Penzo + Fiore svela, come scrive il duo «il narcisismo estremo di una condizione paradossale, quella dell'artista impotente di fronte ai grandi flussi della comunicazione, ma sempre proteso verso di essi». Ed è da questo punto che il cerchio si chiude, tornando idealmente alla Sick Society, ma arricchiti di un punto di vista in più. Non potrebbe esserci conclusione piú appropriata che il racconto di un'introduzione, che ruberemo in questo caso a John Berger e al suo Presentarsi all'appuntamento, per identificare il valore irriducibile di un incontro, e della genesi di una nuova prospettiva di mondo: si va nei posti, si vivono gli anni, ci si presenta ad appuntamenti che si svolgono in luoghi rintracciabili, altri che non hanno corpo fisico: «Tutti, naturalmente, sono stati visitati anche da altri viaggiatori. Spero che anche i lettori si ritrovino a dire: qui ci sono stato». In un luogo, e anche nel corpo.
Matteo
Bergamini
Milano, settembre 2012
Milano, settembre 2012